Le bande musicali, soprattutto quelle che accompagnano funerali e processioni, mi hanno sempre fatto impressione. Quei musicisti dai volti seri, quei ragazzi dentro divise troppo larghe. I suonatori di piatti, grancasse e tamburi in fondo, quelli con gli ottoni in mezzo e i clarinetti in prima fila. E la gente, in attesa ai bordi della strada, come rapita dal loro incedere lento e maestoso preceduto da note strazianti.
Metà anni Sessanta, fine agosto. Festa del Santo Patrono a Villa San Sebastiano, nella Marsica. La banda suonerà nel pomeriggio. La tradizione vuole che ogni famiglia accolga a pranzo un musicista, anche quella presso cui passo le mie estati da bambino. Il cibo preparato è delle grandi occasioni e mio zio stappa la bottiglia di un vino d’annata accompagnando il gesto con una delle sue frasi in rima per le quali è famoso. Poi, accade ciò che di quel vago ricordo mi è rimasto più impresso. Il musicista tira fuori dalla sua custodia uno strumento imponente e mai visto. Si chiama – ci dice – tuba e lo suona per qualche minuto nel silenzio stupefatto di noi tutti. Io lo guardo a bocca aperta. Ho ancora negli occhi della mente i riflessi del sole su quel metallo lucido, le gote del musicista che si gonfiano e le dita che si muovono sicure sui pistoni. Il suono che si diffonde per la cucina è, all’inizio, profondo e grave come un rimprovero proveniente da lontano, ma poi diventa – il musicista ci guarda divertito – ritmico e quasi allegro, come un affettuoso buffetto sulla guancia. Chissà, forse il mio amore per la musica è nato da lì, da un suono così simile al mio carattere.